Per gentile
concessione del CISF, pubblichiamo la relazione tenuta dal Prof. Philippe
Meire, Vice Direttore della Clinica Psichiatrica dell'Università Cattolica di Lovanio.
Introduzione
Gli anziani ci sono sempre stati... Tuttavia, la
situazione ha subito una profonda evoluzione quantitativa e qualitativa: una
volta: i vecchi rappresentavano i sopravvissuti abbastanza rari di un'ecatombe
che colpiva le popolazioni più giovani (mortalità perinatale, epidemie,
guerre, malattie acute...) e inoltre vivevano in un mondo dove la
vulnerabilità era un destino comune. Non è il caso di idealizzare quel tempo,
in cui i bambini nascevano molto spesso quando erano già morti i quattro nonni
e perciò quando la famiglia non poteva essere multigenerazionale.
L'invecchiamento della popolazione, frutto del
progresso medico e sociale, pone quindi dei problemi nuovi alla famiglia, che
ne risulta profondamente trasformata. Ora, la risposta della famiglia è
largamente influenzata dalla cultura dominante della nostra epoca, dominata
dal primato dell'oggettivazione, dalla volontà di dominio e dal prestigio
dell'approccio medico. Questa ideologia comporta un'oscillazione, che da una
parte nega la vecchiaia, sempre evitata e rinviata, nella esaltazione
dell'attivismo e dell'utilitarismo, e d'altra parte riduce la vecchiaia a una
malattia che deve essere curata con la medicina, quando sopraggiunge
l'ineluttabile vecchiaia stessa. Vedremo che questa ipermedicalizzazione della
problematica della vecchiaia provoca paradossalmente un aggravamento dei
fenomeni patologici, tramite la rottura della solidarietà familiare e amicale,
l'incomprensione delle dinamiche affettive e l'espropriazione dell'anziano
mediante meccanismi di oggettivazione.
Se la famiglia vuol essere un luogo per «vivere,
amare e morire», deve considerare l'anziano in maniera differente, con una
visione del problema che non lo chiuda più in se stesso, ma si apra all'altro
come persona. Ciò si può realizzare unicamente in una profonda interdipendenza
fra l'anziano, la sua famiglia e gli altri in una società solidale.
L'avanzamento negli anni esige che l'individuo vada oltre l'immagine di se
stesso, accetti questa perdita mediante un «processo di lutto» in cui
abbandona le sue identificazioni e si apre ai nuovi avvenimenti. Senza dubbio,
tale evoluzione sarà possibile solo se è accompagnata e sostenuta dalla
famiglia e dall'ambiente sociale. Questo dialogo con l'anziano nel suo
progressivo evolversi provocherà a sua volta effetti sui parenti in una sorta
di pedagogia del non-dominio e dell'interdipendenza. Solo un atteggiamento di
esclusione o di negazione dell'anziano permette agli altri di illudersi sul
loro pseudo-dominio e sulla loro indipendenza narcisistica.
Questo rimettere in causa i nostri desideri di
dominio e le nostre comodità narcisistiche è particolarmente violento nei casi
di pazienti detti «dementi», con tutte le riserve che impone questo termine
generico. Tale contatto può essere talmente sconvolgente da suscitare
differenti reazioni di rigetto o di fuga. Quegli stati contrassegnano
effettivamente i limiti della nostra razionalità, della nostra affettività e
delle nostre convinzioni. Una riflessione sull'invecchiamento non può ignorare
né quegli individui che vivono la «grande prova», né le loro famiglie che si
dibattono in problemi materiali, psicologici ed etici. In simili momenti di
solitudine, limitatezza e incertezza estrema, s'impone più che mai la necessità
della solidarietà fra l'individuo, la sua famiglia e la società, attraverso
umili atti creatori di umanità più profonda.
Il contesto socio-familiare
La
famiglia si evolve...
Non è più «quella entità economica in cui si
effettuava la produzione e che assicurava l'istruzione, l'educazione, la
previdenza sociale, la medicina e la composizione dei conflitti». Pertanto, in
quel modello tradizionale, solo ad essa incombeva la responsabilità del benessere
dei genitori anziani. Un compito che di solito era assunto in un quadro di
coabitazione diretta. Tuttavia, quel modello corrispondeva a un ambiente
socio-economico particolare, poiché si trattava soprattutto dì una società
rurale e agricola. Un modello che spesso è idealizzato ed evocato in maniera
ingenuamente nostalgica... Secondo parecchi autori, se esistevano le famiglie
multigenerazionali, il loro numero doveva essere scarso per l'età media assai
bassa e per l'età avanzata del matrimonio.
Ricordiamo che poco più di un secolo fa (fra il 1830
e il 1850), in Belgio l'età media della vita era di 37 anni per gli uomini e di
39 per le donne. Nel XVIII secolo, l'età in cui la maggioranza dei francesi
perdeva il padre e la madre si concentrava fra i 25 e i 35 anni, mentre oggi
va dai 30 ai 60 anni. Così, su 100 bambini, soltanto 5 alla nascita avevano
ancora vivi i loro quattro nonni. Oggi ce ne sono 41.
Inoltre, gli uomini si sposavano più tardi e in
generale morivano prima che i loro figli più giovani raggiungessero l'età
adulta, si sposassero e lasciassero il tetto paterno.
Nel XVIII secolo e in precedenza, le generazioni si
succedevano, mentre ora si accavallano. Come diceva Ph. Ariès, «la storia della
famiglia è ancora condizionata da idee false, che risalgono al modello
costruito alla fine del XVIII secolo e all'inizio del XIX secolo dai filosofi
illuministi e dai sociologi tradizionalisti... Ricorderò soltanto che la
famiglia patriarcale non è mai esistita, almeno nelle nostre società». Tra queste
idee false, c'è la nostra tendenza a idealizzare il passato e a deplorare
invece l'abbandono attuale dei vecchi da parte della famiglia.
La famiglia è cambiata. È diventata multigenerazionale,
pur restando «nucleare», perché le varie generazioni non sono rimaste sotto lo
stesso tetto. Questa però non significa la fine della coesione familiare. Essa
continua a svolgere un ruolo effettivamente essenziale nella vita quotidiana,
come sostiene la tesi dell'«intimità» a distanza. La famiglia fornisce assistenza
(«una risposta personale ai bisogni individuali dei suoi membri») e relazioni
affettive intergenerazionali in cui si fondono indipendenza e solidarietà. Lo
conferma il fatto che oltre la metà degli anziani che vivono soli o in coppia
hanno un figlio che vive a meno di un'ora di distanza. Siamo lontani da certi
miti sull'istituzionalizzazione degli anziani. Secondo uno studio svolto da
Jaumotte in Vallonia e a Bruxelles:
-
il 68% degli anziani vive nel proprio domicilio;
-
il 27% degli anziani vive in famiglia;
-
il 5% degli anziani vive in istituti.
Si verificano numerasi scambi fra genitori e figli,
nei due sensi. Non di rado i genitori in pensione si rendono disponibili ai
figli per sorvegliare i nipoti, dare un aiuto nei lavori domestici, sbrigare
pratiche, senza contare l'aiuto materiale e finanziario alle giovani coppie di
sposi...
Sembrano decisamente superati i titoli che
comparivano sui giornali negli anni 1970: «La morte della famiglia», «Finita la
famiglia?»... Si è invece tentati di dire: la storia della famiglia è recente
ed è in sviluppo. La famiglia appare sempre più come un luogo privilegiato per
lo sviluppo e la protezione degli individui. Tuttavia, solo molto di rado, gli
studi sulla famiglia affrontano il problema dell'invecchiamento e della morte
dei genitori. Ora, il riferimento ai nostri antenati (soprattutto quelli che
si sono conosciuti, ma anche quelli di cui si è sentito parlare) è di
fondamentale importanza, perché contrassegna l'inserimento nella storia e la
continuità della famiglia, e perché dà luogo a un tipo particolare di
relazione. In modo speciale con la vecchiaia, perché, come ricorda Ormezzano,
«la morte non si domina, la si razionalizza. Ci scontriamo con i nostri limiti
nel rendere felice la vecchiaia di coloro ai quali siamo attaccati più
visceralmente nell'amare e nell'odio: i nostri genitori. Ci è più facile
accettare la vecchiaia negli estranei. Il nostro desiderio di restituire loro
tutto ciò che ci hanno dato in passato non è un dovere morale imposto dall'esterno
né un conformismo, ma una esigenza interiore e profonda di reciprocità, di
identificazione. Noi vorremmo che la fine della loro vita fosse tutta amore,
per cancellare i conflitti che non sono mancati nel corso degli anni e che
condizionano ancora il presente».
La vecchiaia come malattia
Tuttavia, la famiglia può svolgere questo ruolo
fondamentale solo se dispone dei mezzi per comprendere e integrare le
situazioni legate alla vecchiaia. Lavorando con le famiglie, ci siamo resi conto
come la vecchiaia, le sue caratteristiche, le sue difficoltà e le sue
potenzialità sono ancora ben poco conosciute. II modello di spiegazione è quasi
sempre la malattia: l'anziano è un adulto colpito da malattie, da
polipatologie, come si dice oggi. Di conseguenza la medicina deve offrire i
rimedi... e si crea una specie di spirale di medicalizzazione. Ad essa si
unisce comunemente una sensazione di frustrazione di fronte alla medicina, che
può alleviare un certo numero di problemi, ma non riesce ad impedire
all'individuo di invecchiare, quindi di cambiare e di entrare in un'altra fase
dell'esistenza. La vecchiaia è una età difficile da accettare: come avviene per
gli adolescenti, che i genitori considerano ancora bambini, l'entourage degli
anziani vorrebbe conservare la loro immagine di adulti nel fiore dell'età,
minimizzando le crisi della senescenza e gli adattamenti necessari.
Prima di parlare delle patologie dell'anziano, è
quindi importante parlare della vecchiaia, informare e creare in qualche modo
un discorso collettivo sulla vecchiaia, che non riguardi solo la malattia, ma
sia anche una riflessione sulle evoluzioní e sugli elementi specifici della
vita affettiva degli anziani, dei loro timori e delle loro speranze, delle
caratteristiche che sono loro proprie. Occorre anche ricordare che le sindromi
psichiatriche più frequenti negli anziani sono i fenomeni ansiosi (oltre il
30% degli anziani soffrono di turbe ansiose) e depressivi (i disturbi depressivi
si riscontrano in circa il 20% degli anziani). È innegabile che i fattori
culturali contribuiscono notevolmente a produrre tali disturbi, anche se non ne
sono le uniche cause: l'angoscia e il rifiuto d'invecchiare sono onnipresenti.
Se l'anziano è vissuto unicamente come un adulto malato ed handicappato, come
evitare questi riflessi psicologici? Un discorso esageratamente medico può
rinforzare un insieme di preoccupazioni somatiche, che spesso prendono una
piega ipocondriaca. Allora c'è il pericolo di concentrasi solo sul corpo, che
viene in primo piano considerato come oggetto medico.
Questo rischio esiste sia per l'anziano sia per l'entourage e per i curanti chiamati a
intervenire. Certo, è proprio dell'essere umano cercare di respingere i limiti
imposti dal corpo, di ritardare la malattia e la morte, ma proprio perché
l'individuo sente di non essere limitato al suo corpo. Oggi si è propensi a
insistere esclusivamente su un aspetto unidimensionale, biologico, senza tener
conto delle dimensioni immaginarie e simboliche della persona. Ora, è
attraverso lo sviluppo di queste dimensioni che si può superare
l'invecchiamento del corpo, per ricuperarlo poi nella costruzione di nuovi
significati.
L'individuo che invecchia corre effettivamente il
grosso rischio d'identificarsi col suo corpo in maniera narcisistica,
rifiutando la sua inevitabile alterazione, nel senso etimologico del termine.
Si finisce così di sfociare in un sentimento depressivo d'abbandono o in un
sentimento di persecuzione da parte di quel corpo che invecchia, dì quel falso
fratello, di quell'alter ego che arriva a tradirvi diventando fonte di
preoccupazioni ipocondriache.
Dinamica dell'invecchiamento
Ecco perché è importante passare attraverso fa
distinzione fra la persona - emergenza mai compiuta di un'articolazione bio-psico-sociale
- e le differenti istanze che contribuiscono alla sua costituzione, come il
corpo, la sua immagine (che poggia sull'lo Ideale) e il ruolo sociale
(sostenuto dall'Ideale dell'io). L'invecchiamento comporta una modifica, a
volte drammatica, dell'immagine di sé e dell'ideale di sé, provocando una vera
crisi di identità. Ma questa crisi è appunto vissuta e percepita dolorosamente
solo perché esiste un 4oggetto del tempo puro, del presente continuo, fuori
del tempo immaginario e cronologico delle nostre rappresentazioni. Tale
divisione del soggetto permette di comprendere come il fenomeno universale
dell'invecchiamento sia sentito in qualche modo come estrinseco al soggetto:
non ci si vede come vecchi (e d'altronde neppure come giovani: ci si vede in un
continuo presente, in qualche modo eterno) ed è l'immagine o il mito ad
informarci del nostro invecchia-mento.
Si pensi a questa osservazione tanto frequente negli
anziani che arrivano all'ospedale: «Qui ci sono solo dei vecchi», dimenticando
che essi spesso hanno un'età molto superiore alla media; o a quella deliziosa
vignetta di Faizant in cui si vede un'anziana signora dire al suo vecchio marito:
«Certo, tu mi ami ancora... ma quando sarò vecchia?».
Credo che tale fenomeno, legato alla divisione del
soggetto, sia essenziale per affrontare il problema della psicologia
dell'invecchiamento. Innanzi tutto, può chiarire tutta l'ambivalenza degli
anziani in rapporto all'uso di parole che riguardano l'invecchiamento:
vecchio, vecchia, anziano, terza età, ecc... C'è qualcosa di perfettamente
sano nel rifiuto di essere identificati con il proprio corpo, con la propria
immagine o con la propria posizione sociale. La persona non è solo quello: se
l'identificazione diventa etichettatura, abbiamo a che fare con il meccanismo
dell'insulto. Nella nostra società, in cui predomina il punto di vista
biologico e materialista, la parola «vecchio» è percepita solo in senso
negativo.
È una delle ragioni per cui bisogna essere molto
prudenti prima di organizzare iniziative destinate esclusivamente agli
anziani, perché in questo modo confermiamo una condizione che può essere
paralizzante. Questo non vuol dire neppure, secondo una moda opposta, ma in
fondo anche essa riduttrice nel suo rifiuto, che si debba negare il problema
dell'invecchiamento... parlare di «sempre giovani» e far credere che tutto è
sempre possibile ad ogni età. Ci sono dei cicli di vita inevitabili, che
provocano crisi personali, non sostanzialmente differenti dalle crisi
precedenti.
Erik Erikson ha molto insistito sui diversi cicli
della vita, a partire dalla prima infanzia, che modificano le nostre
identificazioni. In fondo, il problema dell'invecchiamento si pone per noi fin
dall'inizio: a cominciare dall'infanzia, dobbiamo affrontare il problema dell'alterazione, cioè, alla lettera, del diventare un altro, e questo non avviene
senza dolore e difficoltà. Non per nulla, la maggior parte delle ricerche che
studiano l'adattamento all'invecchiamento e l'equilibrio psicologico degli
anziani insistono sul ruoto della personalità antecedente («Si invecchia come
si è vissuto», diceva Ajuriaguerra). Le crisi della senescenza si distinguono
soprattutto per la loro intensità, tanto che si potrebbero paragonare alle
crisi dell'adolescenza. Ho precisato «le» crisi della senescenza, perché è
chiaro che la vecchiaia non è uno stato uniforme, ma un processo continuo su
cui sì possono inserire diverse crisi: ambiente di vita, menopausa, partenza
dei figli, pensionamento, malattia, vedovanza, dipendenza.
Perché si parla tanto di crisi della senescenza allo
stesso modo in cui si parla dell'adolescenza e in cosa si somigliano? Due
caratteristiche rendano queste crisi difficili e a volte dolorose:
1. L'immagine
di sé, fondamento del nostro narcisismo primario, si modifica
profondamente. Nelle persone che invecchiano, come negli adolescenti, il corpo
si modifica e la percezione di sé ne è turbata. Ora noi sappiamo come la perdita dell'immagine di sé può
essere all'origine della angoscia e della sensazione di vuoto. C'è tutto un
lavoro di destrutturazione e poi di ristrutturazione psichica; in sostanza si
deve realizzare una elaborazione di «lutto», un lutto della propria immagine.
L'invecchiamento implica un lavoro psichico: c'è una elaborazione dell'invecchiamento, come c'è l'elaborazione del
«lutto», e non sono né il lutto né l'invecchiamento ad essere patologici, bensì
l'arresto dell'elaborazione a causa del rifiuto, della repressione, ecc.;
2. Non si modifica solo l'immagine di sé, ma viene
meno il significato, l'ideale dell'io, veicolato dal mito
personale e collettivo... L'elaborazione del lutto che ho ricordato può
avvenire solo attraverso la simbolizzazione, la formazione di un nuovo
linguaggio personale.
Ora, anche in questo caso, troviamo un punto comune
con l'adolescenza: manca un discorso sociale sull'invecchiamento, o è molto
limitato. Come per l'adolescente, c'è un vuoto simbolico, legato in parte al
fatto che tale situazione, anche perché dura più d'una volta, è relativamente
nuova per la nostra società, in parte anche ad una povertà simbolica, a
un'elusione del problema del senso che provoca un ripiegamento narcisistico sul
corpo. Non per niente la risposta offerta alle inquietudini e alle domande
degli adolescenti e degli anziani, è molto spesso una risposta medica.
Nei contatti con gli anziani e con la loro famiglia,
è veramente sorprendente constatare che ogni comportamento, anche la reazione
più naturale del soggetto a una situazione penosa, è interpretato nel senso
della malattia e della minorazione. È necessaria tutta una « pedagogia d'un
diverso approccio » nei riguardi della vecchiaia.
Un approccio diverso al problema
Si deve relativizzare ogni visione che tende a
oggettivare, che isoli l'anziano in un approccio riduttivo (sia esso medico,
economico o psicologico), per offrirgli un approccio diverso, di apertura, o
meglio ancora un «ascolto» che permetta al soggetto di esprimersi e di farsi
conoscere. La dinamica dell'invecchiamento ci porta a scoprire che l'anziano è
sempre di più di ciò che vediamo, sentiamo e pensiamo di lui: «Il suo essere
supera sempre l'immagine che possiamo averne. Salo il nostro immaginario può
aspirare a toccare con mano la realtà dell'altro...». «Conoscere l'altro
significa aspettare che si manifesti come persona, che renda percettibile ciò
che è realmente, e quando si è manifestato, aspettare ancora...».
Con Jean Tritschler, noi pensiamo che i «i vecchi
delle nostre società vivano due drammi che si sviluppano attorno a due concetti
ambigui ma assai diffusi nella società: la nozione di utilità e quella di
indipendenza». Noi sentiamo continuamente lamentele di vecchi o osservazioni
su di essi che riguardano la loro inutilità o la loro perdita di indipendenza.
Così si misura tutto il peso delle immagini e degli ideali sociali che riducono
l'utilità allo scambio materiale e il processo di personalizzazione a una
ricerca d'indipendenza. Chi può dire che l'altro o noi stessi siamo inutili, se
non in una riduzione in cui il fare prende il sopravvento sull'essere,
l'immagine sul divenire? Quanto al mito della nostra indipendenza, non dobbiamo
ammettere di essere ben ciechi di fronte alla realtà della nostra
interdipendenza, al punto di tentare una fuga in avanti?
Nei confronti delle persone anziane, sono sempre
presenti le tentazioni di riduzione, di oggettivazione e di esclusione. Per
evitare di riconoscere la nostra fragilità, la nostra debolezza, siamo
tentati incessantemente di ritrovare un sentimento di dominio in un rifiuto
più o meno mascherato da buone intenzioni. Ad esempio, volendo far morire i
vecchi dignitosamente prima che perdano la coscienza, dimenticando che la
dignità sta nello sguardo, nella tenerezza e nella speranza di chi li
accompagna... Queste tentazioni sono universali, e ciò significa che gli
anziani, i loro parenti e i loro curanti hanno bisogno della solidarietà di
tutti, della loro attenzione e del loro sostegno.
Non nego che i sanitari nei reparti di geriatria
hanno a volte l'impressione di essere abbandonati con i loro pazienti, vittime
dello stesso rifiuto o dell'indifferenza cortese di chi li vuole ignorare in
una gerontofobia generalizzata. Allora, che cosa pensare dell'angoscia di certe
famiglie che affrontano e sopportano per lungo tempo le situazioni complesse
legate agli scompensi psico-organici degli stati demenziali? Quegli stati riguardano
solo una piccola porzione di anziani (5% di ultrasessantacinquenni, ma già il
20% degli ultraottantenni), ma suscitano un tale coinvolgimento della nostra
fragilità e limitatezza davanti a quella notte apparente della ragione e dello
sviluppo di personalizzazione che non passiamo dimenticarli.
Il sostegno alle famiglie
Sono le famiglie a vivere giorno dopo giorno la
maggior parte delle difficoltà incontrate dagli anziani. Ricordiamo le
statistiche del Belgio: solo il 5% degli anziani vivono in istituti e del
restante 95% malti sono inseriti nella rete familiare di reciproco aiuto; il
27,5% di questi ultimi vivono anche con un figlio. Perciò i componenti della
famiglia sono certamente i primi ad offrire un aiuto. Spesso si chiede loro
molto e a volte troppo, al punto che l'entourage familiare diventa i1
«paziente occulto» della situazione. Le diverse crisi legate all'avanzamento
dell'età, i gravi problemi di salute, gli adattamenti familiari, le divisioni
dei ruoli: tutto questo turba l'equilibrio familiare. La coesione di quel
sistema particolare che è la famiglia può essere gravemente sconvolta. Il
sistema familiare può produrre soluzioni, aggiustamenti o compromessi, che a
loro volta diventano fonti di problemi o di conflitti in una spirale di crisi.
Non insisteremo mai abbastanza sulla domanda di
aiuto e collaborazione reciproca, che deve esserci nel contatto con le
famiglie. Esse sono dei pionieri in situazioni a volte molto difficili. Se
tutti parlano oggi, a giusto titolo, di cure domiciliari, bisogna anche capire
cosa si chiede a certe famiglie. Una recente tesi di laurea in scienze
medico-sociali, discussa all'Università Cattolica di Lovanio, sul vissuto della
coabitazione genitore anziana-figlio adulto, ci informa o ci conferma in
maniera convincente sul carico fisico e soprattutto psicologico che sì assumono
quei «figli» (a volte di 50 anni o più), spesso ai limiti dell'esaurimento
fisico e morale. Le famiglie affermano di essere spesso sconvolte dai problemi
psico-geriatrici, ignare dei vari aiuti possibili e isolate nelle loro
difficoltà. Questo può ingenerare diverse turbe nella sfera familiare, oltre a
indurre a un ricovero in ospedale o in istituto in una atmosfera d'urgenza e
sensi di colpa. L'aiuto a coloro che aiutano comprende numerosi aspetti, fra
cui i colloqui con la famiglia sano solo un anello della catena, che deve
essere preceduto dal lavoro di prevenzione e accompagnato da numerose forme di
aiuto psico-sociale meno appariscenti rispetto alla creazione di nuove
strutture (ospizi, case di riposo...), ma molto più vicine alle famiglie e al
loro desiderio di tenere a casa loro gli anziani.
Conclusioni
Mi sembra quindi che sarebbe veramente rivoluzionario
affrontare sul serio il fenomeno dell'invecchiamento e della nostra inevitabile
«alterazione». In effetti, proporre una politica per i vecchi o per la terza
età (se si vuol essere più garbati) è certamente utile, ma terribilmente ambiguo
se gli anziani vengono separati dagli altri cittadini. Mentre è insufficiente
rispetto all'obiettivo. Una vera politica dell'invecchiamento dovrebbe
ricadere come un boomerang sulla società, ponendole gli interrogativi della
solitudine, della limitatezza e dell'incertezza, che essa è tentata di
scaricare sopra una minoranza. L'accettazione degli anziani nella nostra vita
familiare o sociale resta problematica: basti pensare all'aumento drammatico
dei suicidi con l'avanzare degli anni. In generale non si tratta di patologie
psichiatriche, come nella psicosi depressiva, ma piuttosto di atti di natura
reattiva. L'isolamento è il fattore principale di rischio e, a questo proposito,
si è parlato di una « morte sistematica » che precede la morte reale. Anche
altri fattori, come l'insicurezza materiale, l'inattività, la malattia e le
infermità sensoriali sono fattori di rischio. Come non temere che
l'investimento affettivo attuale della società nel mito del corpo perfetto e
della vita efficiente, nel suo ideale di dominio e nella sua perentoria
negazione di altre dimensioni personali, non prepari una grande angoscia
rispetto alla vecchiaia, molto più che nei confronti della morte? Non si tratta
di accusare sistematicamente la società, ma è un fatto che quegli atti
compiuti dagli anziani, al di fuori di precise turbe psicopatologiche, sono una
sfida e un appello alla nostra solidarietà e alla nostra immaginazione.
Se le risposte sono difficili e incerte, porsi questi
interrogativi è un passo preliminare al rifiuto dell'oggettivazione e una
condizione per la instaurazione di un vero rapporto personalizzato.
Manifestando ciò che è nel fondo del cuore di tutti, incominciamo a prendere
gli anziani sul serio, perché hanno vissuto e vivono, in maniera a volte
drammatica. «Si parla di anziani, non si parla con loro». Non ascoltarli non
significa solo respingere le persane magari a favore di finalità o idee, anche
molto nobili, ma anche mutilare noi stessi, perché anche noi siamo parte di
quel rapporto fra vita e morte, desiderio e limitatezza. È se pare che la
persona non possa più esprimersi, ricordiamoci che il suo corpo rimane il
simbolo della sua storia, «il memoriale di una vita, di una presenza che si è
espressa, di un mistero che ha irradiato luce attorno a sé, senza mai esaurirsi
del tutto».
Quando curiamo, tocchiamo o abbracciamo un corpo
anche colpito dalla malattia, o in apparenza disfatto, noi testimoniamo a noi
stessi e agli altri che i corpi sono qualcosa di più che oltrepassa i corpi
stessi. Ci ricordiamo anche che la elaborazione riguardante la
personalizzazione passa attraverso la prova del tempo e del lutto nei confronti
dei nostri investimenti narcisistici. La maniera con cui rispondiamo
all'invecchiamento degli altri condiziona l'immagine che attribuiamo a noi
stessi nella ricerca della nostra umanità.